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ROBERTO MANCINI
Il primo incontro tra Roberto Mancini e il grande calcio slitta a causa di un’incomprensione, un banalissimo errore procedurale. Il Milan fa arrivare la lettera di convocazione per un provino alla società sbagliata, la Real Jesi invece dell’Aurora. Un pasticcio che fa la fortuna del Bologna. Mancini è figlio di quella provincia italiana spensierata degli anni Sessanta, in famiglia c’è quel che basta per vivere bene, di pomeriggio si pensa al pallone nell’oratorio di Don Vigo. Il Bologna è una cosa seria e papà Aldo deve inventarsi qualcosa per nascondere la notizia a mamma Marianna: l’escamotage è organizzare una visita dentistica per la moglie, sempre a Bologna, in contemporanea al provino di Roberto. Non sappiamo come, ma funziona. Il giovane Mancini gioca una quarantina di minuti, poi Marino Perani lo fa sparire negli spogliatoi. Teme la presenza di occhi indiscreti e vuole che il ragazzo firmi il prima possibile. Così, a 13 anni, Mancini prepara la valigia e saluta Jesi, direzione Bologna. A tenerlo sott’occhio ci pensa Walter Bicocchi, per tutti «il Mago», presenza fondamentale a Casteldebole. Le sue prestazioni vengono monitorate con attenzione da Gigi Radice, allenatore del Bologna nella stagione 1980/81, che però non può far esordire Mancini in prima squadra come vorrebbe: i regolamenti dell’epoca impediscono il debutto in A prima dei sedici anni e allora il privilegio tocca a Tarcisio Burgnich nel corso dell’annata successiva. È il tecnico a impedire la partenza di Mancini in prestito al Forlì, gli basta qualche allenamento per capire che sarebbe un anno buttato. Il primo gol in A arriva al quarto spezzone, contro il Como, per il definitivo 2-2. Il primo gioiello, invece, è all’Olimpico: dall’altra parte c’è la formidabile Roma di Nils Liedholm, che per Mancini ha una predilezione da anni. Non riuscirà mai ad allenarlo, nonostante i numerosi corteggiamento di Paolo Mantovani, ma è un’altra storia.
Mancini a Roma entra dopo l’intervallo e a un certo punto capisce prima di tutti dove andrà il pallone lanciato da Franco Baldini: è un Mancio giovane e razzente, difficile da contenere quando può allungare in velocità: arriva sul pallone e lo colpisce al volo, una delle specialità della casa, scavalcando Tancredi con un pallonetto dolcissimo. È un gol che ci racconta una delle qualità migliori di Mancini, la capacità di prendere il tempo agli avversari e di ingannarli anticipando, o ritardando, la conclusione o il passaggio. Non è ancora un numero 10, scende in campo con la 7, talvolta con la 9. Ma per il Bologna è una stagione disgraziata e i nove gol dell’esordiente Mancini non bastano a rimanere in Serie A, con la squadra che manda all’aria la salvezza con un finale da dimenticare. «Il Bimbo» sembra già grande, troppo grande per una squadra costretta alla retrocessione per la prima volta nella sua storia. Mancini è già nel mirino di Bearzot, che in quella magica estate del 1982 porterà l’Italia sul tetto del mondo. Lo vogliono la F iorentina e la Juventus e Mancini diventa un caso, perché il presidente Fabbretti ha convinto Radice a tornare al Bologna promettendogli proprio la permanenza del giovane campione, ma le offerte sono troppo assillanti per dire no e l’allenatore va allo scontro con il patron, rifiutando di firmare il contratto in assenza di certezze. Grande è la confusione sotto il cielo e a fare chiarezza ci pensa un presidente dall’aria di un padre di famiglia, con le guance piene e un sorriso che, quando esplode, può cambiare l’umore di tutti quelli che gli stanno attorno. Si chiama Paolo Mantovani, ha da qualche anno preso la Sampdoria e in testa ha un’idea meravigliosa: portarla a vincere lo scudetto. Sa che non è un’impresa di breve respiro e per arrivare a quel traguardo deve rastrellare i giovani migliori prima che ci arrivino gli altri. Lo ha già fatto con Pietro Vierchowod, preso e lasciato in prestito nelle varie big italiane in attesa che la Samp diventi all’altezza di quel formidabile stopper, lo farà con Gianluca Vialli. E adesso, nell’estate 1982, lo fa con Roberto Mancini, che per quattro miliardi di lire e quattro contropartite tecniche approda in una città che gli era parsa stranissima la prima volta che l’aveva vista: «Ma come si fa a vivere qui?», aveva pensato vedendo Genova. Ma la vita sa essere strana.