Domenica 8 Luglio, l’Azienda Agricola Zanon Livio e Figli, con sede nel Comune di Mirano (VE), ha organizzato la Festa dell’Aratura e della Trebbiatura con mezzi ed attrezzature storiche.
La Festa della Trebbiatura ha avuto luogo nel pomeriggio. Due carri ricolmi di covoni di grano, fasci di steli, praticamente tutti eguali per numero e dimensione, tagliati e legati da una vecchia BCS con avviamento a strappo. Non ne avevo mai vista una in funzione; una macchina “strana”, molto particolare, snella, slanciata, quasi sibillina e per nulla facile da domare. Il suo rumore, secco, dalla tonalità piuttosto alta, accompagna, e scandisce, i colpi secchi con cui i covoni formati vengono depositati sul terreno, a distanza regolare l’uno dall’altro.
Un forcone li infilza, li solleva, quasi fossero dei trofei e, con un gesto ripetuto infinite volte, li deposita su di un carro, in legno, che lo segue. Una volta che il carro e ricolmo delle messi appena falciate, viene condotto di fianco ad una vetusta trebbiatrice, tutta in legno. Una teoria di pulegge fa bella mostra di sé su entrambi i lati, ed il lato posteriore, come una sorta di lingua meccanica, fra poco rigurgiterà, dal suo interno, i resti del suo lavoro. Sul lato opposto, da una piccola fessura rotonda posta in prossimità del fondo della macchina, esce il grano, raccolto in un alto contenitore cilindrico, ed una volta ricolmo, svuotato in sacchi.
Un vecchio trattore a volano, possente e dal tipico rombo monocilindrico, sbuffa denso fumo nero ed orgoglioso trasmette il moto mediante una cinghia che, molto probabilmente, non misura meno di venti metri; incrociata al centro, corre in aria, libera, fiera e maestosa sino a raggiungere la trebbiatrice, e da lì, nuovamente il volano.
Sul carro ricolmo di covoni, che nel frattempo è stato posizionato opportunamente affianco alla trebbiatrice e salito un uomo, anche lui “armato” di forcone, anche lui con movimenti ritmati, sempre uguali fra di loro, infilza un covone alla volta e, facendolo “volare” sopra alla testa, alla fine dell’arco lo deposita sulla sommità della trebbiatrice; li, altre due persone, con fare sapiente, ed in perfetta sincronia, prima recidono la legatura del covone e poi lo introducono, a viva forza, fra le sue mandibole.
Si proteggono le vie aeree con un fazzoletto, quasi fossero dei “cowboy” occidentali, ed oggettivamente la pula ed i frammenti di stelo, come residui della lavorazione, volteggiano numerosi impadronendosi dell’aria.
Tutta la scena assomiglierebbe ad una scenografia se non fosse per il fatto che non è una messa in scena, al contrario, è tutto reale e tangibile; è reale il lavoro, lo sforzo ed il sudore che ne deriva e che imperla le fronti protette da cappelli di paglia a larghe tese.
La cosa che mi ha colpito, oltre alla “bellezza” meccanica dei mezzi impiegati, è il quasi totale silenzio dei numerosi spettatori; forse anche loro, come me, erano talmente affascinati da tutte quante quelle azioni e movimenti, meccanici ed umani, che risultava pressoché impossibile scambiare anche poche parole, tanto e tale era il rischio di distrarsi e perdersi così qualcosa di unico ed irripetibile.
Michela Cossidente
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