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Continua la visita nella Galleria del Palazzo degli Alberti di Prato tra le bellezze della pittura seicentesca. Oltre a quella fiorentina troviamo in questo ambiente anche incursioni di pittori venuti da fuori Firenze o che, addirittura, probabilmente non sono mai entrati nell'area fiorentina come Bernardino Mei, qui rappresentato da due grandi quadri dai toni drammatici. Bernardino Mei era un pittore senese, allievo di Rutilio Manetti, ma che trasferitosi a Roma divenne amico del Bernini e naturalmente da egli fu molto suggestionato, oltre a subire influenze da altri grandi come Mattia Preti, Andrea Sacchi e Guido Reni. Queste due opere della metà del Seicento sicuramente facevano parte della medesima decorazione in una sala di un palazzo signorile. Troviamo in entrambi lo stesso phatos e la stessa teatralità della rappresentazione tipicamente berniniana. Addirittura le protagoniste dei quadri sono curiosamente atteggiate nella stessa posizione e nello stesso punto della composizione, facendo denotare che sono entrambe figlie del medesimo studio preparatorio. Una è Giulia che sviene quando le viene annunciata la morte del marito Pompeo con il messaggero che le mostra la veste insanguinata, l'altra è Ifigenia, figlia di Agamennone, che accetta di essere sacrificata alla dea Artemide per far salpare la flotta del padre verso Troia. In entrambi i quadri c'è una disperazione rappresentata con uso di atteggiamenti plateali come braccia alzate al cielo o bambini che strillano.
Abbiamo poi del solito periodo una Maddalena di Giovanni Martinelli. Nato a Montevarchi andò a Firenze allievo di Jacopo Ligozzi, ma nella capitale del granducato rimase solo per il periodo dell'apprendistato in quanto dovette a un certo punto testimoniare in un processo a favore del maestro e facendo ciò si trovò inviso a gran parte della committenza. Quindi la sua vita si svolse altrove anche se non sappiamo bene dove. Probabilmente in provincia nonostante il suo talento, ma c'è chi sostiene sia stato a Roma. La Maddalena qui esposta è raffigurata in un momento di severa riflessione, in un contesto notturno con il corpo sensualmente illuminato dalla luce lunare.
Pittore straniero è Giusto Suttermans, nato ad Anversa, ma che fece di Firenze la sua città d'elezione in quanto divenne pittore di corte dei Medici. Di lui qui è esposto il ritratto di Isabella d'Este come rappresentazione della primavera, tema che già aveva utilizzato per Vittoria della Rovere, granduchessa di Toscana.
Ma poi arrivano i fiorentini come Francesco Furini con una Ghismunda in lacrime che contempla con una sofferenza chiusa in sé il cuore dell'amato Guiscardo: le donne ritratte dal Furini sempre sensuali e belle. Il Volterrano, con un matrimonio mistico di Santa Caterina d'Alessandria, sempre così morbido e aggraziato in una profusione di vesti cangianti e mossi, tipicamente barocchi. E poi Cesare Dandini, qui con tre quadri, un ritratto e due allegorie, con il suo tipico cliché dei volti e il suo acceso colorismo. Vincenzo Dandini, sicuramente più equilibrato del fratello Cesare come possiamo vedere in questo suo magistrale Ganimede, il coppiere degli dei, e che quindi regge una calice di vetro. E poi Simone Pignoni, allievo di Fabrizio Boschi, con una rappresentazione della Carità con le figure che emergono dall'ombra modellati da bagliori colorati. E infine un'altra Carita, stavolta di Carlo Dolci, con la sua solita carica spirituale e la solita minuziosità esecutiva, tanto che era diventato famoso per la lentezza delle esecuzioni delle opere, ma quando ne concludeva una era sempre un capolavoro.